Moltissimi mestiéri de ‘na volta sono spariti dalla Conca. O perché poco remunerativi o perché soppiantati dall’uso di macchine più moderne. Agli inizi del secolo scorso la Conca era famosa per i suoi scarpari (calzolai): moltissime famiglie si sono dedicate, fino agli anni ’60, alla lavorazione delle scarpe.
In anguste stanze (spesso in cucina), il padrone di casa, con l’aiuto dei vicini, dopo aver ritagliato le pelli, assemblava le scarpe (in quegli anni non c’erano molte fabbriche), le mandava a cucire (erano in pochi quelli che avevano le macchine), le completava e le consegnava alle varie botéghe della zona ed anche fuori provincia. Durante la bella stagione gli scarpari usavano lavorare all’aperto, portando i loro banchéti fuori dalla porta di casa, in corte, magari vicino agli altri per avere la possibilità di fare anche quattro chiacchiere. Per l’acquisto delle varie parti delle scarpe si approvvigionavano al negozio di Antonio Corsini e a quello di Pietro Berti in corso Garibaldi.
Le fabbriche della città e i laboratori più grandi distribuivano alle famiglie della Conca i pezzi necessari: i paréci. Alla riconsegna ricevevano il compenso pattuito.
Alcuni scarpari facevano i sopèi che erano un tipo di sòcoli (ciabatte), con la parte superiore in cuoio e la suola in surlo (sughero): la gente li teneva da festa. Si ricordano i fratelli Ninin Gaina, Simoncela (Simone) e Piero Faccin che sotto alle suole degli scarponi piantavano varie bròche per renderli molto resistenti. Pum Balasseto (Giovanni Balasso) di via Chilesotti era specializzato nel realizzare scarpòni a tre cuciture: erano indistruttibili e molto comodi. Nella stessa via abitava anche Pietro Sassale Dal Zotto.
Angelo Albertini detto el Turco faceva il calzolaio ed era specializzato nel fare gli scarponi, che poi andava a vendere alla gente dell’Altopiano di Asiago che li usava in miniera e in cava. Oltre alle normali cuciture fatte a mano, infilava varie file di piccoli caéci (pioli) di legno al posto dei normali chiodi intorno alla suola per tenere la tomaia: più si bagnavano e più tenevano perché il legno aumentava di volume e non faceva passare l’acqua. La moglie preparava con la pégola gli spaghi per le cuciture. Per un certo periodo ha lavorato anche a Schio e al calzaturificio Bettanin in via S. Gaetano. Faceva anche le riparazioni: partiva dalla Conca, a piedi e con uno zaino in spalla, andava nei vari paesi della pedemontana, ritirava scarpe e scarponi e li riconsegnava la settimana successiva. Abitava in via S. Filippo Neri in corte Tiraneli.
Nel dopoguerra, all’inizio di via De Muri, dove in seguito si installò l’azienda di arredamenti Meneghello, Alessandro Ferretto aveva un piccolo laboratorio di scarpe grezze da uomo e di sopèi.
In corte dei Toldi, Jijo Dordo Luigi Marzaro, oltre che fare il calzolaio era molto bravo ad imbalsamare uccelli e piccoli mammiferi.
Berto Moserle era specializzato in scarponi: ne riusciva a produrre anche dieci paia al giorno.
In via Dell’Eva, ognuno con il proprio banchetto (se ne contavano più di 20) c’erano i Balasso, i fratelli Tagliapietra, Mosele, Ottavio Tagliocci, Barbieri, Gaetano Franzon.
Le scarpe di una volta avevano quasi tutte le suole di cuoio (le attuali generalmente sono di gomma) che, come i tacchi, si consumavano molto velocemente: soldi per acquistarne di nuove non ce n’erano quindi si portavano spesso a risuolare e a mettere i tacchi nuovi. Si ricordano alcuni scarpari che con poche lire le riparavano: Lovisetto in via S. Giovanni Bosco; Giovanni Carobo Dal Carobbo che lavorava al calzaturificio Miotto e in seguito da Bettanin, e che si era ricavato un piccolissimo sgabuzzino in cucina.
In piazza Martiri della Libertà, Ghitan Savio, che lavorava al Calzaturificio Sardella in via Zanella, in casa riparava le scarpe dei sacerdoti e degli studenti che vivevano all’interno del Collegio Vescovile.
In via Chilesotti, vicino alla famiglia Lovisetto, abitava lo scarparo Cireneo Sartori. In via Rasa lo scarparo Stivanello.
Spesso lavoravano anche alla domenica, ma il lunedì c’era un’usanza che si tramandavano: si andava al mercato per ricevere gli ordini dalle persone provenienti dall’Altopiano, che si riversavano in pianura per i vari acquisti e per incontrare gli amici con cui stare un po’ insieme, e magari, ritornare a casa un po’ brilli.