La famiglia Crema di via Chilesotti aveva l’abitazione che comunicava con la corte dei Zanoti. La Maria Albertini (Turca) che abitava in quella corte, era una tiraòssi che rimetteva a posto polsi e caviglie slogati: era consuetudine che le persone che avevano bisogno delle sue cure, per non fare il giro del lungo caseggiato, passassero per la cucina dei Crema e si recassero dalla Maria e poi ritornassero per la stessa scorciatoia. Per loro era una cosa normale: le porte non erano mai chiuse a chiave, tutti si conoscevano. C’erano alcuni poaréti (mendicanti) che passavano quasi settimanalmente per le varie case della Conca a chiedere l’elemosina e sempre lo stesso giorno della settimana per essere ben riconosciuti.
Nel dopoguerra, alla sera, all’interno dell’osteria di Matio Sguai (Martini) in corte Fiaschi di via Chilesotti, si riuniva un piccolo gruppo di “musicisti”. Con loro la gente cantava e ballava al ritmo della Balalaika. Usavano anche un vecchio grammofono con i dischi a 33 giri. D’estate invece si ritrovavano a ballare nella corte da bocce in fondo al cortile. Il parroco, quando passava per la benedizione annuale delle case, saltava abitualmente l’osteria perché il ballo era considerato uno scandalo ed il sacerdote era contrario, come da molti in quegli anni. Il fratello di Matio Sguai, Guerrino, maestro elementare a Zugliano, usando i tavoli dell’osteria, era solito organizzare, nei pomeriggi estivi, il doposcuola per una sessantina di ragazzi della Città di Thiene. L’osteria è stata chiusa nel 1950.
Attilio Grendene (Stecolin), Luciano Dall’Igna (Dayan) e Gianni Bravo (Cacao), di via Chilesotti, erano appassionati chitarristi. Quest’ultimo aveva l’abitudine, alla sera, dopo il lavoro, di affacciarsi al balcone di casa, intonare le note di una canzone e dilettare così i vicini e i passanti. Era consuetudine degli adulti mandare i bambini da Jijo Monca Luigi Conzato (tabachìn di via Chilesotti) ad acquistare anche solo due sigarette; non avevano la possibilità per un pacchetto intero, infatti le sigarette venivano vendute anche sfuse. Dopo una lunga e trepidante attesa, il mattino del 6 gennaio arrivava la Befana. Gesù Bambino non portava doni materiali. I ragazzi della Conca aspettavano con ansia quel giorno perché era l’unica occasione per ricevere qualche regalo: uno scartòsso con dentro do naranse (due arance), quattro mandarini, un poche de gaetine (bagigi). I più fortunati potevano trovare un piccolo giocattolo e le bambine un banbòcioto (bambolotto), spesso lo stesso dell’anno precedente o della sorella più grande, a volte senza un braccio e che puntualmente, dopo qualche giorno, spariva un’altra volta (messo da parte per l’anno seguente).
Un po’ di carbone non guastava mai per indicare al pargolo che doveva rigare dritto altrimenti la prossima volta avrebbe ricevuto solo quello (veniva acquistato nella Drogheria Zambon, sotto ai portici in piazza, che aveva un vastissimo assortimento di bòn-boni e di molte altre cose). Quando cominciava il carnevale, le mamme con poche possibilità impastavano i grùstuli (crostoli) e le frìtole (frittelle). Per prendere in giro i bambini e ridere un po’, qualcuno li mandava da un’altra signora della corte a prendere lo stampo per fare le frittelle.
Durante l’estate i bambini che si riteneva avessero più bisogno di altri, venivano mandati in colonia: con la corriera, chi al mare alla Colonia Monte Berico di Jesolo o Cervia, chi in montagna nella Colonia Alpina Gil di Cesuna, a Lusiana o a Stoccaredo sull’Altopiano di Asiago, chi a Montanina di Velo D’Astico e, fino a qualche anno dopo la guerra, nell’accogliente Colonia Piero Panizzon a Tonezza del Cimone di proprietà del Comune di Thiene. Era un mese di vacanza, con l’alzabandiera al mattino, l’immancabile canto dell’inno nazionale e poi giochi o lunghe passeggiate sorvegliati dalle signorine.
Chi non andava in colonia, poteva partecipare al solario: qui i bambini venivano accuditi dalla mattina al pomeriggio, giocavano e facevano un po’ di doposcuola. Dopo il pranzo era obbligatorio il pisolino pomeridiano. Gli edifici usati erano l’ex Casa del Fascio di via G. Munari e le scuole elementari Scalcerle nell’omonima piazza.
Le scuole riprendevano sempre il 1° di ottobre. I ragazzi, con i loro traversòni (grembiuli) neri ed il fiocco blu, le ragazze con il fiocco rosso, si ritrovavano alle scuole Scalcerle, le uniche della città. Le frazioni di Rozzampia e Lampertico avevano le proprie.
La cartella si teneva in mano. Le prime cartelle con le cinghie da portare sulle spalle arrivarono molti anni dopo, come pure gli elastici per tenere assieme i libri da portare sottobraccio.
Le ragazze della Conca che frequentavano le medie si sentivano così più simili alle colleghe del centro città. Venivano usati solamente un quaderno a righe ed uno a quadri di misura diversa a seconda della classe frequentata (i più fortunati avevano quelli con la copertina colorata, ma normalmente le copertine erano nere).
Nella cartella c’era anche un penale con qualche pennino di ricambio, perché spesso si schincavano, da intingere nel calamaio nel vecchio banco di legno scrostato che il bidello Bortolo Barbieri e la bidella Maria Rizzi riempivano di inchiostro usando un bricco con un lungo becco. Fino agli anni ’60 nell’aula delle scuole elementari Scalcerle situata vicino al parcheggio esterno, dal lato dell’Istituto Nordera, venivano annualmente installate le apparecchiature che servivano a sottoporre gli alunni della scuola e di tutta la zona, alle radiografie polmonari per la prevenzione della tubercolosi in quegli anni ancora molto diffusa. In quei giorni gli alunni di quella classe venivano spostati in un’altra aula o suddivisi in altre classi. Gli scolari dovevano togliersi le maglie e le “catenine” e rimasti in canottiera, in piedi, in fila indiana aspettavano il loro turno per appoggiare il petto al macchinario ed eseguire l’esame diagnostico. Un medico infilava una grossa lastra sul retro, poi andava a posizionarsi dietro a un paravento schermato e faceva scattare le radiografie. La macchina era collegata, tramite dei grossi cavi, al camion parcheggiato all’esterno, in piazza Scalcerle. Finite le scuole, i ragazzi erano completamente liberi: pochi compiti per le vacanze, quasi nessuno andava in ferie (qualcuno andava a passare qualche giorno dai parenti) e così tutti in giro a giocare da mattina a sera. Era usanza, fino agli anni ’50, alla domenica, assistere a Messa Prima alle ore 5 in Duomo. Sia d’estate che d’inverno. Il giorno di Natale, dopo la cerimonia, qualche famiglia passava da Buzzolan sotto ai portici in centro per acquistare dei biscotti secchi e poi a casa venivano inzuppati nella cioccolata calda: era l’unica occasione dell’anno. In quasi tutte le famiglie, tutte le sere, subito dopo la frugale cena, veniva recitato il rosario: la mamma intonava le preghiere e tutti i congiunti la seguivano. Fino agli anni ’60 si usava portare il lutto per almeno sei mesi dopo la morte di un congiunto. Gli uomini mettevano un grosso bottone nero nell’occhiello del revers della giacca (fino a quegli anni quasi tutti le indossavano) oppure una striscia di stoffa nera di traverso dello stesso revers. Le donne portavano le calze di nylon nere, usavano un abbigliamento il meno vistoso possibile e, quando si recavano in chiesa, al posto del consueto velo chiaro mettevano quello nero. Con il passare degli anni tale usanza, dalle nostre parti, è scomparsa.