Una volta, il bacalà, prima di essere venduto dai caʃolìni della zona (si ricordano i Bonato, i fratelli Ziche, Trevisi, Ernesto Dal Ferro), doveva essere battuto ripetutamente al punto giusto per essere poi cucinato abbastanza sfibrato. Alcune persone, usando un alto e grande sòco ed una mazza di legno, in seguito sostituita da una in ferro, facevano tale mestiere: occorrevano circa 150 battute assestate bene altrimenti rischiavano di rompere la pelle (in quel caso il pesce si presentava male) e di frantumare le ossa. In seguito, prima di essere cucinato, veniva messo in ammollo per alcune ore.
I negozianti consegnavano un certo numero di stoccafissi dopo averli contrassegnati con una propria sigla, poi questi venivano immersi in un mastello per una decina di secondi per inumidire la pelle, stesi all’ombra ad asciugare e quindi battuti.
Le mani dei battitori avevano dei grossi calli: dovevano usare la raspa per tenerli il più basso possibile.
Negli anni ’40, ogni bacalà battuto veniva pagato una palanca (vecchia denominazione per indicare i 5 centesimi di Lira) e il conto veniva saldato alla riconsegna.
Attualmente l’operazione viene effettuata con una macchina.
In via S. Filippo Neri il fabbro Cristiano Andretta lo faceva per la Cooperativa di Consumo di via Trieste e Bepi Edoardi in via S. Gaetano si metteva sotto il portico della casa colonica di De Meda dove abitava.