In Conca fino a qualche anno fa in molte case dei contadini, e non, c’era sempre qualcuno che aveva la passione di andare a caccia, che generalmente veniva aperta per la selvaggina di passaggio il 15 di agosto, mentre la 3^ domenica di settembre c’era l’apertura generale. Dopo aver assistito, già con gli abiti da caccia, alla “messa dei cacciatori” (messa officiata appositamente per loro prima dell’alba), cominciavano le battute.
Era abitudine delle persone che non lavoravano in fabbrica andare a caccia tutte le mattine anche per poche ore.
Quasi tutti i cacciatori si facevano da sé le cartucce: acquistando i vari materiali da Galvan in corso Garibaldi o da Spimpolo al Bosco e usando prima la machinéta par cavare i raminèi usati (i bossoli venivano riutilizzati) e poi quella par sararle (chiuderle). I fucili, quasi sempre doppiette, venivano tenuti appesi ad una parete di casa. Tutti tenevano molti uccelli da richiamo di varie specie (una volta non c’erano limitazioni né per quelli tenuti in gabbia né per quelli da cacciare). Per dare da mangiare ai quajòti usavano el quajìn che era la miscela di varie sementi di scarto che veniva raccolta in un sacco da una bocca laterale della trebbia quando veniva trebbiato il frumento.
Nella nostra zona, fino agli anni ’50, venivano allestite anche le quajare (impianti per catturare le quaglie vive): una era sul terreno della famiglia Borriero in via Cul del Saco vicino ai luamari, una sui poderi dei De Toni (Marola) dopo la ferrovia in via Gombe ed una in via Delle Giberte, oggi via Quattro Strade, dalla famiglia Gallio, dove approntavano anche una rè-trata (per catturare vari uccelli vivi). Un’altra rè-trata era sui campi della famiglia Tedesco (Rusoni) in via delle Robinie.
In mezzo al granoturco veniva piantata una stanga par quajòti (lunga pertica) e dopo la mezzanotte venivano agganciate moltissime gabbie (fino a cinquanta) con i quajòti da richiamo per fermare le quaglie di passaggio ed in cima un faro a carburo per spaventare le soéte (civette) perché non andassero a disturbarli. Sul terreno venivano predisposte due file di tavole alte circa cinquanta centimetri messe a V tipo paratoie che servivano ad incanalare le quaglie disseminate sul terreno e siccome queste non volano molto, ma corrono, al mattino seguente, di buon’ora, venivano spaventate partendo da lontano da quattro o cinque persone per parte e spinte fra le tavole battendo per terra con piccoli bastoncini ed urlando “curibeo-curibeo-curibeo curi-curi-curi”. Alla fine dell’imbuto c’era un piccolo scalino e i volatili cadevano in una grande gabbia e rimanevano imprigionati. Attorno alle strutture veniva montato anche el gatolaro che era una trappola per catturare i gatti perché, sentendo cantare i quajòti, si avvicinavano. La gente, quando il loro gatto non tornava più a casa, sapeva che era andato alla quajara perché, quando veniva preso, spesso i cacciatori lo eliminavano e forse se lo mangiavano.
Ai Concati piaceva a nare a quajèta. In primavera, di notte, piantavano un palo in mezzo a un campo con appesa una gabbia con una quaglia da richiamo (usavano anche il quajarólo) che faceva avvicinare i quajòti che rimanevano impigliati nell’apposita rete, chiamata coltrinèlo, alta circa cinquanta centimetri, stesa attorno al palo stesso.
Checo Dal Zotto (Francesco) di via S. Giovanni Bosco era bravo a costruire i quajaròli usando crine di cavallo, un pezzo di cuoio e un osso della mandibola del maiale. Spesso li metteva in vendita. Quando si recava in campagna nel periodo in cui le quaglie erano in amore, sbatteva l’attrezzo e i volatili si immobilizzavano. Poi, cosa non comune, si avvicinava, li catturava vivi con le mani e li metteva in gabbia.
Molto spesso, varie persone della Conca preparavano la selegara: era una piccola caponara di salice alta circa dieci centimetri e di cinquanta di diametro, con un foro al centro e serviva per catturare i passeri vivi e poi mangiarli con la polènta ònta. La posizionavano su un luogo solitamente frequentato dagli uccelli, inserivano nella trappola un passero appena nato che faceva da richiamo, gli altri entravano dal foro e non erano più in grado di uscire. In una giornata riuscivano a catturarne anche cento.
In autunno, nei vari orti della Conca, non era rado individuare qualche gabbietta appesa ad un albero con un uccello da richiamo e i bachetòni con le vis-céte intrise di vìs-cio per catturare i lugarìni e le montagnòle. Se ai poveri uccellini il vischio veniva tolto subito potevano salvarsi, altrimenti venivano soppressi.
Nelle sere di novembre vari giovani della Conca andavano nei campi, lungo le piantà con el stendardo (palo che sosteneva una grande rete) per catturare le séleghe (passeri) che si raggruppavano a dormire sulle piante.
Quando nevicava i ragazzi erano contenti perché, di nascosto, stendevano molte trappole costituite da archetti con una molla alle quali attaccavano una semente per far avvicinare gli uccelli che trovavano poco da mangiare. Avevano molta cura delle loro trappole, non avendo la possibilità di acquistarne di nuove, perciò, finita la stagione della caccia, staccavano la spirale e, prima di riporle, le oliavano accuratamente. Approntavano anche il tamado che consisteva in una tavola o una rete appoggiata su un lato ad un bastoncino legato ad uno spago molto lungo. Spargevano del cibo sotto la trappola e poi si appostavano poco lontano: quando gli uccelli si avvicinavano per mangiare, tiravano lo spago e questi rimanevano imprigionati.
Fino agli anni ’50, alcuni giovani della Conca andavano a rane. Dopo essersi muniti di una fiocina (una specie di grande forchetta con varie punte) e di una lampada a carburo, si recavano nella zona, ricca di acqua e di fossi, di Villaverla e Novoledo per catturare le rane. Con il buio, puntavano la luce sulla rana, che restava immobile, e la infilzavano con la fiocina.
Le persone che andavano a pescare, recuperavano, per attaccarli alle loro lenze, i bigadìni (larve) presso la Conceria Spinato di via Chilesotti. Infatti nel grasso recuperato durante la pulitura delle pelli e posto in grossi bidoni che venivano svuotati una volta alla settimana, le larve si moltiplicavano velocemente.
Al lunedì mattina, giorno di mercato, specialmente nei mesi autunnali, davanti alla Ceʃeta Rossa vicino al Municipio, si svolgeva la Fiéra dei Oʃei.
Le gabbie con gli uccelli da richiamo venivano disposte in fila, appoggiate sopra al muretto che delimita il sagrato. Alcune erano tenute coperte da un telo che il proprietario alzava solo quando c’era un possibile acquirente perché al suo interno c’erano degli uccelli che si spaventavano molto più facilmente di altri.
Nello stesso luogo si vendevano anche uccelli morti utilizzati dalle massaie per preparare un buon arrosto.
di Gianni D. F. 671
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